Dagli sbadigli ai brividi

Roberto Beccantini21 maggio 2022

Dopo aver incerottato il Genoa, anche se i graffi erano troppi e troppo estesi, la Crocerossina ha porto una guancia anche alla Fiorentina. Era l’ultima di campionato, l’ultimissima di Chiellini, Dybala e Bernarderschi; la Juventus nascosta dietro al quarto posto di una stagione fallimentare, la Viola animata, se non altro, da un certo qual spirito di servizio: batterla (dopo tre sconfitte) e guadagnare la Conference League.

Il risultato l’hanno scolpito, al 46’ del primo tempo, una lecca di Duncan in mischia, e, al 92’, un rigore di Bonucci su Torreira, trasformato da Nico Gonzalez: 2-0. Allegri non aveva più nulla da chiedere e, meno che mai, da dare. Aveva risparmiato addirittura Vlahovic, aveva confermato Miretti: si era messo lì, sulla sponda del fiume. La solita sponda del solito fiume dei soliti zero tiri.

Tra Fiorentina e Juventus non corre buon sangue: corrono, invece, buonissimi soldi. Per Chiesa, per il serbo. E, in passato, per Baggio, per Bernardeschi. Contenti loro. Alla ripresa, si è giocato per onor di firma, Chiello subito fuori, Pinsoglio tra i pali, il Franchi in festa e, per Madama, l’ottava caduta. Non c’era bisogno di conoscere l’Italiano, per leggere la partita: bastava seguire e sommare le tracce di un anno smunto come le nuove maglie. Gli infortuni e gli episodi, d’accordo: mai, però, se non per brevi sprazzi, visioni e piedi che sapessero di gioco.

Dagli sbadigli ai brividi. Il giorno è domani. Ore 18, si decide lo scudetto: al Mapei di Reggio, Sassuolo-Milan; a San Siro, Inter-Sampdoria. Classifica: Milan 83, Inter 81. Al Diavolo, visto il bouns dei confronti diretti (1-1, 2-1), basta il pari. Una città intera che si gioca il titolo all’ultima curva non è da tutti. La mia favorita, dopo la fuga di Cristiano, era l’Inter. Pioli l’ha scavalcata e, così, ha in mano il destino, Inzaghi non più. Non è ancora tutto, ma non è decisamente poco.

La festa triste

Roberto Beccantini16 maggio 2022

Il guerriero. Il ballerino. L’addio di Chiellini ha schiacciato quello di Dybala in uno Stadium feriale ma festaiolo, con le ragazze della Juventus premiate per il quinto scudetto e il popolo a buttarsi sui ricordi. Giorgio è uscito al minuto 17, come i suoi anni al servizio di Madama, sostituito da De Ligt. Dybala al minuto 77, avvicendato dal ventenne Palumbo. Il laureato è stato una corazza, l’Omarino – 115 gol, 48 assist – uno dei più mancini dei tiri (furtarello da Edmondo Berselli, che così scrisse in onore di Mariolino Corso).

E’ lo sport che coinvolge, è la passione che stravolge. Ognuno ha le sue. Solo l’azzurro, quando vince, ci unisce: e non sempre. Poi c’è stata anche «una» partita. La Lazio di Sarri, il tecnico del nono e ultimo «scudo», che il sottoscritto non avrebbe esonerato. Le mancava Immobile, il capo-cannoniere. La Juventus era stremata, svuotata dalle burrasche di coppa. Agli invitati, lo chef Max ha offerto il solito buffet. Tutti dietro ad attendere, educati, e qua e là fuochi d’artificio in giardino. Come i gol: Vlahovic di testa, subito, su cross di Morata; e poi Morata, di destro, al culmine di un contropiede Dybala-Cuadrado. Nel mentre, Chiellini continuava a girare e a firmare autografi, la barbetta patibolare, il naso grifagno (dallo zaino del grande Camin).

Alla ripresa, la Lazio segnava subito (carambola Patric-Alex Sandro), il popolo continuava a commuoversi. Allegri raschiava il fondo della under, con Palumbo, con Aké (Miretti c’era dall’inizio). Il 2-2 di Milinkovic-Savic piombava, ultimo e trafelato ospite, al 96’, dopo che Ayroldi aveva valutato, alla Orsato, un contatto Zaccagni-Cuadrado. Finiva l’amichevole, non la notte, mai troppo piccola per momenti così: lo Stadium che fischia Agnelli, perché il cuore non è una plusvalenza; Chiellini che «placca» tutti, come ai bei tempi; Dybala che piange, la storia che passa e saluta.

Match-point

Roberto Beccantini15 maggio 2022

Non me ne voglia Pioli, l’ex carro attrezzi diventato proprietario dell’officina dei sogni, se parto dal gol di Theo Hernandez. Da area ad area. Come Weah contro il Verona. Come Berti in Baviera. Il Milan aveva già sbloccato il risultato con Leao, servito da un lancio «abbastanza» lungo (uhm, i fusignanisti) di Messias. Sono i gol, quelli «alla» Theo, che accendono i bambini e, magari, mandano in bestia i maniaci delle lavagne, gli spasimanti degli schemi. Perché li spaccano, perché tolgono qualcosa (cosa, poi?) ai precettori.

Era una partita, Milan-Atalanta, molto bloccata, soffocata dall’effetto fornace, ostaggio di una tensione palpabile. Della Dea è rimasta l’i-dea, non i califfi che ne decorarono la saga (il Papu, Ilicic, Gosens, il miglior Zapata). Ha tirato poco, recrimina per un contrasto fra Kalulu e Pessina a monte dell’1-0 (Orsato non è Valeri, a ognuno il suo), ha patito gli episodi, non la trama. Il Milan ha un gioco leggero che, d’improvviso, s’impenna: fra le sgommate di Theo e le volate di Leao (11 gol), una delle rare sinistre al potere (anche se, spesso, sarebbe più corretto parlare di centro-sinistra, visti i sentieri e le coalizioni).

Ancora una volta, è stata la ripresa a lanciare il Diavolo: era già successo all’Olimpico con la Lazio, a San Siro con la Fiorentina e al Bentegodi. Inflessibile la coppia Tomori-Kalulu, un po’ giù Tonali, artefice degli ultimi sorpassi. Capita. La forza del Milan è il coraggio, la rosa: non la più forte, ma forte per visione e per solidarietà. Dietro, c’è il lavoro del mister, di Maldini, di Massara, di Gazidis: senza dimenticare Boban, che, ai tempi della cotta per Rangnick, mollò il fondo perché voleva mollare Pioli, sul cui carro sono saliti tanti, troppi. Ah, questi italiani.

L’Inter ha risposto a Cagliari in serata, di forza. Con Darmian. Di testa,
Leggi tutto l’articolo…